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La grande innovazione di questi anni, per chi si occupa di strategia, è come sia cambiato il processo strategico.

Sembra ieri quando le aziende si potevano permettere l’ufficio ‘Pianificazione Strategica’. Un luogo dove ci si poteva prendere il tempo per immaginare come sarebbe evoluto il contesto competitivo, quali sarebbero state le Opportunità da cogliere e le Minacce da cui difendersi.

La strategia era composta da due fasi precise e distinte: la progettazione e l’implementazione.

Oggi distinguere questi due momenti è un lusso che nessuna azienda si può permettere. Per dirla con Clayton Christensen:

‘La strategia è un processo, non un evento. Le organizzazioni fanno strategia 24/7’

In questa sua affermazione, il teorizzatore della ‘Disruptive Innovation‘, indica due caratteristiche essenziali dell’attuale processo strategico:

  1. è un flusso senza soluzione di continuità. Il verbo che lo accompagna non è più pianificare ma iterare, ‘applicare ripetutamente una certa successione di operazioni (ciclo operativo), partendo ogni volta dal risultato dell’applicazione precedente, allo scopo di ottenere la dimostrazione di un teorema o di conseguire, attraverso approssimazioni via via maggiori, la soluzione di un problema’ (Treccani);
  2. riguarda tutta l’organizzazione, non è più una funzione elitaria, ma è frutto dei valori e dei comportamenti di tutta la comunità aziendale, tanto da far dire a Drucker ‘La cultura si mangia la strategia a colazione’.

E’ incredibile quanto sia sottovalutato il punto 2., pur essendo la vera leva per costruire un’identità forte, che diventi un vantaggio competitivo destinato a durare nel tempo, uno stile che diventa brand.

Da tempo sperimento l’accompagnamento delle organizzazioni che vogliono sviluppare il processo strategico in modo autonomo e originale. Preferisco questo approccio perchè sono convinto che la loro strategia sarà sempre più performante di quella costruita a tavolino da un ufficio di analisti o di consulenti.

La difficoltà maggiore è far togliere il cappello.

Per mangiarsi la strategia, la cultura non può essere quella specialistica e funzionale con cui siamo abituati a gestire le aziende. E’ una cultura che ha portato, in nome dell’applicazione di un business plan, ogni singolo Dirigente o Responsabile a coltivare il proprio orticello. In questo contesto ogni volta che arriva sul tavolo il tema strategico si rischia di dover ‘imporre’ una linea per non rischiare di rimanere vittima dello stallo derivante dalla paura di perdita di controllo/potere.

La cultura che si mangia la strategia a colazione, è quella che educa l’organizzazione ad osservare l’azienda in modo sistemico. Ognuno all’interno dell’organizzazione ha un cappello in testa, perchè ha dei ‘talenti’ da mettere a disposizione in un particolare ambito del processo di creazione di valore. Quell’ambito non è però affidato all’insegna del ‘Dio me l’ha data e guai chi me la tocca’. Piuttosto è dato in comodato d’uso in nome di un interesse maggiore. Proprio come i talenti di evangelica memoria, è da valorizzare pensando al risultato finale che non può che passare dall’equilibrio e dalla crescita dell’intero sistema.

Per riuscire a mangiarsi la strategia a colazione, è necessario – prima di sedersi a tavola – togliersi il cappello.

Non è questione di galateo ma di cultura aziendale: la disponibilità ad andare oltre all’illusione di avere qualcosa da proteggere, o peggio, da difendere.

Quando, durante il percorso di SprintStrategy, osservo crescere l’empatia tanto far dimenticare al Responsabile Operation i processi di logistica perchè si immedesima nella complicata gestione della rete di vendita, o da coinvolgere il Responsabile Amministrativo sui temi delle Risorse Umane o del Marketing, sono sicuro che è solo l’inizio, perchè la strategia è pronta ad essere mangiata.

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